La Corte Costituzionale, con la sentenza n.88/2018, pubblicata il 26.04.2018, ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della L. 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134 – nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto».
La norma censurata, oggetto dell’intervento, ovverosia l’art. 4 della legge n.89/2001, prevedeva, a pena di decadenza, uno stretto limite temporale (sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva) entro cui era possibile proporre la domanda di equo indennizzo per la violazione della ragionevole durata del processo.
Con la sentenza in esame la Corte Costituzionale ha statuito che, nonostante l’invito rivolto dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 30 del 2014 – sentenza in cui era stata evidenziata «la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo»– il legislatore non ha rimediato al vulnus costituzionale precedentemente riscontrato, con la conseguenza che l’art. 4 della L. n. 89 del 2001 va dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione, una volta maturato il ritardo, possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto.
La Consulta rileva che «se i parametri evocati presidiano l’interesse a veder definite in un tempo ragionevole le proprie istanze di giustizia, rinviare alla conclusione del procedimento presupposto l’attivazione dello strumento – l’unico disponibile, fino all’introduzione di quelli preventivi di cui s’è detto – volto a rimediare alla sua lesione, seppur a posteriori e per equivalente, significa inevitabilmente sovvertire la ratio per la quale è concepito, connotando di irragionevolezza la relativa disciplina».
E così, mentre spetterà al giudice verificare, caso per caso, se e come applicare l’interpretazione costituzionalmente orientata della legge Pinto, il legislatore dovrà «provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione».